Sommario
§1.
Le definizioni di devianza
§2.
La teoria dell’etichettamento
§3.
Stigma e identità sociale
§4.
Devianza e normalità
§5.
Contrapposizione tra norma e devianza
§6.
Disagio e Devianza
§7.
Conclusione
Le definizioni di devianza
Nello
studio della devianza il libro Outsider, di Ohoward S. Becker è un classico.
Anche quello di Goffman è importante, sull'identità negata. Il concetto di devianza
presuppone prima una definizione. Secondo una definizione statistica deviante è
che si discosta dalla norma. Anticamente era considerato deviante chi si
discostava dai precetti religiosi o magici, con i divieti degli stregoni
o dei sovrani delle società tribali e poi, con il passar del tempo, con la
disapprovazione sociale e le leggi non scritte e, infine, con quelle scritte
delle società più evolute. In ogni caso, il concetto di devianza presuppone
quello di norma(lità) e viceversa.
Perché alcune persone hanno
comportamenti devianti ed altre no? Questa domanda, al di là delle risposte
mitologiche e religiose che facevano risalire le colpe della devianza alle
divinità o alle forze demoniache, si è posta con particolare forza a partire
dall'Ottocento, in quanto la borghesia, classe dominante, aveva paura
particolare della devianza e del crimine e voleva combatterla con particolare
vigore, cercandone quindi le cause, come quelle di una pericolosa malattia
sociale.
Cominciò allora il confronto
fra sostenitori delle ragioni sociali/familiari della devianza, che vede
l’origine dalla povertà, dalla miseria, dal degrado crescente dovuti al
capitalismo; e sostenitori "ingenui" dell'origine caratteriale,
fisiologica della devianza e del crimine.
Famosi furono allora gli
studi dei francesi in questa direzione e, famoso, il libro di Cesare Lombroso, “L'uomo
delinquente”, in cui dalle caratteristiche fisiche del corpo si faceva
dipendere il destino deviante e criminale della persona.
Un’altra definizione di
devianza ricorre al concetto di “malattia”. Poiché l’organismo umano quando
funziona efficientemente e non è soggetto a nessun disturbo è considerato
“sano”, allora quando non funziona efficientemente è considerato malato. Anche
se è più facile discutere sul concetto di malattia che di normalità, tuttavia, si
ritiene deviante una condotta che riflette un disturbo o una “malattia" mentale
o morale.
Il comportamento di un
omosessuale o di un tossicomane è considerato come il sintomo di una malattia
mentale, così come la difficoltà con cui si cicatrizzano le ferite del diabetico
è considerata come un sintomo della sua malattia.
Un’interpretazione
sociologica della devianza più relativistica, la identifica come la mancata
osservanza delle norme. Una volta scritte le norme che il gruppo impone ai suoi
membri, possiamo stabilire che chi le viola è deviante. Di qui la duplice
deduzione: non c'è devianza senza norma e non c'è norma senza devianza
.
La teoria dell’etichettamento
Negli Stati Uniti, tra la
fine degli anni '50 e gli anni '60, in un quadro storico-sociale segnato da
numerose proteste e rivendicazioni per i diritti civili, muove i primi passi la
cosiddetta teoria dell'Etichettamento (labelling approach), che
vede tra i suoi maggiori esponenti Lemert e Becker.
Questa corrente di pensiero
si basa su un importante presupposto: la definizione di un comportamento
criminale è del tutto relativa, in quanto dipende dalla definizione normativa
che, in quella data società e in quel dato tempo, viene attribuita a quel
determinato comportamento; esso sarà considerato come reato o no a seconda della
definizione normativa che gli è stata data.
Secondo la teoria
dell'etichettamento, il criminale altro non è che colui che viene definito,
“etichettato” come tale dalla società e dagli organi ufficiali di controllo
(polizia, giudici, istituzioni penitenziarie).
L'interesse viene quindi
spostato dal delinquente e dalle condizioni sociali (povertà, sottocultura,
ecc.) che producono la delinquenza, alla reazione sociale ed alla definizione
della devianza: cioè ai processi e meccanismi selettivi di criminalizzazione,
visti nel loro ruolo di controllo sociale, ed agli effetti della
stigmatizzazione ai fini dell'acquisizione della qualifica di criminale o
deviante.
A questi fini non è decisivo
il comportamento deviante in sé, ma piuttosto l'interazione tra l'individuo che
mette in atto questo dato comportamento e i membri della società che ne vengono
a conoscenza, in particolare gli organi di controllo sociale.
Lo status sociale di
delinquente, pertanto, presuppone necessariamente l’effetto stigmatizzante, che
ha una funzione costitutiva della criminalità stessa. Spesso è proprio la
stigmatizzazione del primo comportamento criminale che genera, attraverso il
mutamento dello status sociale dell'individuo stigmatizzato, una tendenza a
permanere nel ruolo sociale delinquenziale in cui la stigmatizzazione lo ha
introdotto.
Nella teoria
dell'etichettamento il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema
sociale, ma la condotta deviante è invece intesa come necessaria e utile alla
società che in essa trova il confine ben delineato della propria conformità. Il
deviante, quindi, deve essere “creato” per differenziarsene ed avere un termine
di paragone negativo.
Inoltre, il deviante svolge
anche un ruolo di capro espiatorio: nel momento in cui si polarizza contro di
lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli autori del male, si ha il vantaggio di
non far percepire come devianti altre condotte, parimenti dannose per la
società, ma che sono proprie delle classi dominanti.
Il criminale nella comune
accezione, non è tanto quello che commette un crimine ma piuttosto colui che,
fra i molti atti illegali, ne compie certuni.
I concetti di stereotipo e
di stigma rappresentano bene questi meccanismi nel senso che le stereotipo
culturale del criminale corrisponde a quello della criminalità abituale e
convenzionale, ma non comprende tutti gli atti contrari ai codici.
Si avrebbe così una
discriminazione in relazione al tipo di delitto, all’ambiente in cui esso viene
attuato e al ceto dell’autore.
I gruppi sociali, quindi, creano devianza facendo le norme la cui infrazione
costituisce devianza, applicando queste norme ad alcune persone ed
etichettandole come outsider. Il deviante è una persona
alla quale l’etichettamento è stato applicato con successo: il comportamento
deviante è comportamento che viene etichettato come tale.
Stigma e identità sociale
Rispetto ai teorici
dell'etichettamento, Goffman esplora il problema della devianza in relazione ai
processi di costruzione dell'identità sociale.
Nella sua opera “Stigma” egli definisce l'atto come deviante quando
questo trasgredisce una norma; per Goffman la trasgressione ha per oggetto un
tipo specifico di norme, che regolano l'identità.
Ogni individuo è dotato di un'identità sociale: un complesso di segni esteriori
definisce il suo status sociale e stabilisce le modalità di rapporto che gli
altri possono intrattenere con lui. L'identità personale che si va così a
costruire è composta di due dimensioni: una virtuale, che è attribuita
all'individuo sulla base della sua apparenza, e una reale.
Lo stigma è quell'attributo
personale (una qualità fisica o culturale, come il colore della pelle,
l'handicap, la religione, l'omosessualità, ecc.) la cui osservazione suscita
negli altri un dubbio sull'identità sociale del soggetto, in quanto pone il
problema dell'adeguatezza fra identità virtuale e reale.
Da parte sua, l'individuo
stigmatizzato cerca di gestire lo scarto fra le due dimensioni della sua
identità, attraverso delle strategie di controllo dell'informazione sociale, che
sono volte o a servirsi dello stigma stesso quando questo è riconoscibile o
palese, oppure a evitare lo svelamento quando questo è nascosto.
Secondo Goffman, in teoria qualsiasi attributo può diventare uno stigma, poiché
il passaggio da attributo a stereotipo avviene nel corso dell'interazione faccia
a faccia; in particolare, l'autore sottolinea che non è il possesso dello stigma
in sé ma il tipo di rapporto sociale in cui il soggetto è coinvolto a
determinare il sorgere della devianza.
Il deviante è, perciò, il soggetto che è portatore di uno stigma, che ha scarse
possibilità di controllare l'informazione per lui discreditante e che, infine, è
posto in contesti poco favorevoli alla gestione di un'identità segnata dallo
stigma.
Devianza e normalità
Il concetto di devianza
presuppone l’idea del diverso. La diversità è un dato oggettivo, nel senso che
oggettivamente, per esempio, un uomo di colore ed uno bianco sono diversi,
l’uomo è diverso dalla donna, ecc. L’idea del diverso rimanda al concetto di
ignoranza. Anche l’ignoranza è un dato oggettivo, nel senso che oggettivamente
l’uomo bianco ignora chi è l’uomo di colore che ha davanti a sé. I due dati
oggettivi, diversità ed ignoranza, generano la paura, che è un dato irrazionale,
nel senso che posso avere paura senza decidere di volerla provare.
I mass media accentuano poi
la diversità, finendo spesso col far passare la convinzione che se esiste il
crimine o un certo male sociale, la colpa è sempre del diverso, e così che, per
esempio, l’inizio della costruzione sociale della devianza del diverso coincide
con la stigmatizzazione posta dalla società sullo straniero, che diviene sia la
causa sia l’effetto della sua emarginazione.
Nella più recente sociologia,
il concetto di devianza, è venuto ad assumere diversi significati.
Originariamente, secondo l'indirizzo strutturale-funzionalistico, la devianza
era intesa come un agire antinormativo, contrario cioè alle norme sociali,
codificate o meno, che regolano il comportamento dei soggetti, conservano la
credibilità per buona parte della gente e vengono ritenute più importanti.
Nella teoria
dell'etichettamento, invece, il concetto di devianza subisce un capovolgimento,
poiché essa non consiste tanto nel comportamento antinormativo, ma è piuttosto
la conseguenza della stigmatizzazione operata dalla reazione sociale.
Il processo di consolidamento
della devianza si realizza poi attraverso una serie di eventi.
La stigmatizzazione fa
dunque in modo che il soggetto che si è comportato in un certo modo, finisca per
riconoscere se stesso nell’etichetta che gli è stata posta e che non tende più a
modificare la condotta. In particolare, Lemert distingue una devianza
primaria, da una devianza secondaria: in entrambi i casi avviene la
violazione di una norma, tuttavia, le conseguenze per il soggetto sono diverse:
l
la devianza
primaria è quella condotta deviante che prescinde dalle reazioni sociali e
psicologiche che modificano il ruolo e il sentimento dell'identità dl soggetto
agente. E' “l'allontanamento più o meno temporaneo, più o meno importante agli
occhi di chi lo attua, da valori o norme sociali e giuridiche, attraverso un
comportamento che ha implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica
dell'individuo; essa non dà luogo a una riorganizzazione simbolica a livello
degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali”;
l
la devianza
secondaria, invece, si realizza come effetto della reazione sociale e
comporta peculiari effetti psicologici: l'attore si percepisce come deviante,
sviluppa tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il ruolo comporta, con
conseguente fissazione in tale ruolo di deviante.
Essa, dunque,
“consiste nel comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che
diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi,
manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione
primaria. In realtà le cause originarie della deviazione perdono di importanza e
divengono centrali le reazioni di disapprovazione, degradazione e isolamento
messe in atto dalla società (Lemert, 1981).
Le deviazioni restano
primarie o situazionali finché non sono razionalizzate come funzione di un ruolo
riconosciuto socialmente. Quando invece una persona comincia a usare il
comportamento deviante come modo di adattamento ai suoi problemi, la devianza
diventa secondaria.
Contrapposizione tra norma e
devianza
E’ evidente che ci siano dei
territori di confine ambigui, in cui norma e devianza si confondono e si
sovrappongono.
Generalmente, per "devianza" si intende l’allontanamento da una norma, ove il
concetto di norma è definito dall’analisi del comportamento umano; la norma è
determinata dall’uomo e denota un margine o una classe di comportamenti entro i
quali rientra la normalità.
La devianza, come la normalità, è soggetta a slittamenti semantici, a mutamenti
dovuti ai mutamenti dei costumi delle società, dei contesti politici e
territoriali.
La devianza può coincidere
con la patologia (fisica o mentale: il malato o il folle) e con la criminalità
(il ladro, l’assassino), nei casi in cui l’allontanamento dalla normalità
implica l’allontanamento dalla salute o dal rispetto della legalità.
E’ indubitabile che il
concetto di devianza (e il suo simmetrico, la conformità alla norma) si offra ad
inferenze paradossali, determinate dal particolare punto di osservazione. Per
rendere esplicito il carattere convenzionale della definizione di devianza basti
ricordare che in un contesto ove ottanta persone su cento fossero malate di
tisi, il deviante sarebbe colui che non è malato di tisi (ossia il sano).
A questo punto è interessante
notare che in un esperimento scientifico si parla di errore, piuttosto che di
devianza delle leggi di natura.
Nel caso di leggi di natura vi può essere errore (falsità contro la verità della
legge), nel caso delle leggi sociali vi può essere soltanto allontanamento
(devianza, appunto) dai comportamenti più frequenti che hanno dato corpo a
quelle leggi.
La devianza, dunque, non
coincide con “l’errore”.
C’è un’infinità di sfumature
tra l’errore come conseguenza dei limiti della conoscenza umana e l’inganno come
conseguenza della capacità umana di ricostruire il mondo da un punto di vista
soggettivo, parziale, fazioso, unilaterale.
L’errore scientifico si
presenta sotto innumerevoli vesti, e rappresenta l’ombra che accompagna lo
sviluppo delle conoscenze. Invece di cercare la verità sarebbe preferibile
cercare l’errore: scovando l’errore, escludendo ciò che vero non è, ci si
avvicinerà alla verità, in quanto si circoscriverà sempre di più l’ambito di ciò
che potrebbe essere vero.
.
La devianza, inoltre, implica
un dominio attinente alla sfera di volontà (intenzionalità) da parte del
soggetto deviante: anche chi è deviante per “colpa”, ad esempio colui che guida
in stato di ebbrezza, non è esente da considerazioni riguardanti la sua
violazione.
Per la dottrina penale
poteva usare la sua volontà, prima dello stato di ubriachezza,
risolvendosi nella scelta di non dover bere (o di bere, evitando di trovarsi a
guidare).
La devianza, secondo le leggi
di un ordinamento giuridico, implica sempre un contrasto concreto, non astratto,
tra due soggetti (il deviante e il controllore delle regole sociali): tale
aspetto è assente nell’errore di natura.
Disagio e Devianza
Per meglio definire il
termine “devianza” è necessario partire dal concetto di “conformità”, che
possiamo definire come la condotta di vita informata a parametri comportamentali
accettati e permessi dal contesto sociale in cui sono inseriti, un comportamento
quindi, coerente verso un insieme di norme (codificate e non).
Dal punto di vista
struttural-funzionalista, secondo il sociologo E.Durkheim (1858-1917) la
normalità è la media dei comportamenti, vale a dire, ciò che è normale è
tale per un modello sociale determinato, in uno spazio temporale e in un luogo
individuati.
Di conseguenza la conformità
non è un comportamento statico, bensì mutevole e relativo in base ai valori
dominanti della media popolazione di una specifica società in un particolare
momento storico.[11]
Un comportamento conforme è
il risultato di una buona socializzazione, ossia di tutta una serie di
meccanismi volti all’apprendimento e all’accettazione delle norme che avviene
fin dall’infanzia attraverso l’educazione dei genitori, l’insegnamento
scolastico.
Considerando sempre il piano
dello struttural-funzionalismo, nel momento in cui vi è una violazione motivata
e non accidentale di una norma sociale, si manifesta il comportamento deviante.
Per essere tale, però, la
regola deve essere conosciuta dal trasgressore ed egli, pur essendo consapevole
dell’imperatività della stessa, non ne accetta l’autorità.
E’ quindi fondamentale che le
norme per le quali si sia manifestata l’inosservanza, siano ancora credibili per
il gruppo sociale in quel dato momento e siano considerate importanti ed
essenziali.
Il concetto di devianza è
quindi inscindibile dal contesto sociale di un determinato periodo storico.
E’ da sottolineare che è
deviante solo quella condotta che, avendo violato una norma comune, produce una
reazione sociale di disapprovazione e di censura e per la quale vi è
una richiesta di sanzione, come risposta alla mancata interiorizzazione nel
deviante del valore della regola infranta.
Infatti vi sono norme
all’interno di una società che, pur essendo tuttora valide, non comportano
alcuna reazione emotiva per la loro violazione e che, conseguentemente, hanno
perso di significato, divenendo indifferenti alla sensibilità sociale.
La gravità della sanzione (ad
esempio il rimprovero o l’emarginazione o l’applicazione di misure rieducative)
e l’intensità della riprovazione sono indici fondamentali per valutare il
comportamento deviante[12].
Alcuni esempi di
comportamenti devianti tra i giovani possono essere considerati l’abbandono
scolastico, la violenza e la prevaricazione diffusa, l’uso delle droghe, la fuga
da casa
A tale
proposito può essere interessante citare la teoria di Merton (1959), la quale,
rielaborando il concetto di anomia di Durkheim (il quale definì lo stato
di anomia come “frattura delle regole
sociali”, quella condizione cioè, all’interno di una società, in cui le norme
vengono a decadere o ad essere scarsamente considerate ), sostiene che quando i
valori culturali dominanti entrano in contrasto con i mezzi istituzionalizzati
per il raggiungimento degli scopi del successo in una determinata società, a
causa dell’impossibilità per alcuni membri di raggiungere tali scopi con i mezzi
legittimi , possono prodursi comportamenti devianti. Merton quindi suddivide i
devianti in diverse tipologie:
l
gli
innovatori: coloro che pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti
rispetto ai mezzi che usano per raggiungerli;
l
i ritualisti:
coloro che rimangono fedeli ai mezzi consueti, pur non condividendo gli scopi
cui questi dovrebbero servire;
l
i
rinunciatari: coloro che rifiutano sia i valori e gli scopi comuni, sia le
norme che riguardano i mezzi per raggiungere questi ultimi;
l
i ribelli:
coloro che mettendo in discussione obiettivi e mezzi comuni, non si ritirano
tuttavia dalla scena sociale, ma lottano per affermare obiettivi e mezzi
diversi.
Se consideriamo il percorso
dalla conformità alla criminalità un cammino evolutivo (o meglio, involutivo),
possiamo collocare tra il comportamento conforme e la condotta deviante, un
processo intermedio: lo stato di disagio, che può essere definito come un
“sentire” tipico della fase adolescenziale.
E’ proprio in questa fase
della vita, infatti, in cui l’adolescente è impegnato nei processi di
identificazione e diversificazione, nella ricostruzione della sua immagine
infantile, sia personale che sociale, che prevalgono le incertezze, le crisi, i
vissuti di solitudine.
Se tali processi
non si sviluppano in modo adeguato, a causa di una cattiva comunicazione con
l’adulto, di patologie familiari, di difficoltà di inserimento nel mondo
scolastico, o di una particolare situazione emotiva, nel giovane può sorgere una
condizione di disagio la quale, espressione di un malessere diffuso, può
manifestarsi attraverso fenomeni di isolamento, di reattività, di ribellione, di
difficoltà nell’apprendimento[15].
Possiamo quindi
definire il disagio come “l’anticamera della devianza”.
Il sentimento di
disagio, di non adeguatezza, può quindi condurre a comportamenti di ribellione
verso la società con la conseguente trasgressione delle regole del sentire
comune, che la reazione sociale può classificare come condotte devianti.
Allora, qual è,
la differenza tra devianza e criminalità?
In primo luogo la
criminalità è da identificare in ogni comportamento che viola le norme previste
dal codice penale e dalle altre leggi che prevedono una sanzione di carattere
penale (quindi le diverse pene stabilite per i delitti e le contravvenzioni
dall’art. 17 del c.p.). Ma è fondamentale precisare che non sempre l’infrazione
di una norma penale produce una reazione di disapprovazione da parte della
società, anche se l’entità della pena risulta essere grave.
E’ vero che se il
concetto di devianza, essendo frutto di un giudizio di valore inscindibile dal
contesto storico e sociale, ha finito spesso per coincidere anche con quello
della criminalità per quelle condotte che producono una reazione emotiva della
società, quali tossicodipendenza o i delitti dovuti ad uno status sociale
svantaggiato, lo stesso non può valere per quei reati ben più gravi, per la
delinquenza dannosa nei confronti del prossimo e quella organizzata che attenta
ai principi basilari della società[16].
La criminalità si
denota, quindi, anche per la sua pericolosità sociale e per la reazione di
insicurezza che infonde nella popolazione.
E’ tuttavia
importante sottolineare che non si può far rientrare il concetto di criminalità
in quello più generico e mutevole di devianza, anche in considerazione della
diversità nella gravità della reazione dell’opinione pubblica e di quella
ufficiale e nella sua pericolosità sociale.
Conclusione
Sono state affrontate fin qui
sia le definizioni sociologiche sul tema della devianza e sia la teoria
dell’etichettamento, che ha segnato un vero paradigma nella sociologia della
devianza, secondo lo studio particolare di H. S. Becker.
La devianza, per Becker, è
sempre il risultato dell’iniziativa di qualcuno. Prima che qualsiasi atto possa
essere visto come deviante, e prima che qualsiasi categoria di persone possa
essere etichettata e trattata come deviante per aver commesso l’atto, qualcuno
deve aver instaurato la norma che definisce questo atto come deviante. Le regole
non nascono spontaneamente. Anche se un’attività può essere oggettivamente
dannosa per il gruppo cui avviene, il danno deve venire scoperto e messo in
evidenza. Le persone devono essere indotte a pensare che sarebbe necessario fare
qualcosa. Qualcuno può richiamare l’attenzione del pubblico su questi problemi,
fornire la spinta necessaria per raggiungere l’obiettivo e, una volta svegliate
queste energie, convogliarle nella direzione adatta perché venga creata una
norma. In senso lato la devianza è il prodotto di un’iniziativa: senza questa
iniziativa destinata a creare le norme, la devianza, che consiste
nell’infrangerle, non potrebbe esistere.
La devianza è il prodotto di
un’iniziativa anche in un senso più stretto e particolare. Una volta entrata in
vigore, una norma deve essere applicata a delle persone particolari prima che
l’astratta categoria degli outsiders creata dalla norma possa popolarsi. I
trasgressori devono essere scoperti, identificati, arrestati e condannati (o
marchiati come “differenti” e stigmatizzati per la loro non conformità).
Naturalmente questa incombenza spetta ai professionisti del fare rispettare le
norme che, applicando leggi già esistenti, creano i devianti particolari che la
società vede come outsiders.
E’ interessante il fatto che
la maggior parte della ricerca e della teorizzazione scientifica sulla devianza
si occupi delle persone che infrangono le norme, piuttosto che di quelle che le
istituiscono e le fanno applicare. Se vogliamo raggiungere una tale comprensione
del comportamento deviante, dobbiamo mettere sulla bilancia queste due possibili
direzioni dell’indagine sociologica. Dobbiamo vedere la devianza e gli
outsiders che personificano questo concetto astratto, come una conseguenza
di un processo di interazione tra persone: alcune, nel servizio dei propri
interessi, elaborano e fanno applicare delle norme che colpiscono altre persone
che, nel servizio dei propri interessi, hanno commesso degli atti etichettati
come devianti.
Becker fa una critica ai
sociologi che si occupano del problema della devianza: pochissimi sociologi,
scrive, descrivono in dettaglio cosa faccia un giovane delinquente nel corso
della sua attività quotidiana e cosa pensi di se stesso, delle sue attività e
della società. Quando formuliamo delle teorie sulla delinquenza giovanile, ci
troviamo quindi nella situazione di dover dedurre il modo di vivere di un
ragazzo delinquente da studi frammentari e da resoconti giornalistici
anziché riuscire a basare le nostre teorie su un’adeguata conoscenza del
fenomeno che cerchiamo di spiegare. E’ come se provassimo, come una volta
dovevano fare gli antropologi, a costruire una descrizione dei riti
d’iniziazione di una lontana tribù africana a partire dai resoconti dispersi e
incompleti di alcuni missionari. Noi sociologi, dice Becker, a differenza degli
antropologi, non abbiamo motivo di fidarci delle descrizioni-frammentarie di un
dilettante: i soggetti del loro studio erano distanti migliaia di chilometri, in
giungle inaccessibili; i nostri stanno vicino a noi.
Bibliografia
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