Sociologia della devianza
di Prof. Saverio Fortunato

Sommario
§1. Le definizioni di devianza
§2. La teoria dell’etichettamento
§3. Stigma e identità sociale
§4. Devianza e normalità
§5. Contrapposizione tra norma e devianza
§6. Disagio e Devianza
§7. Conclusione

Le definizioni di devianza

Nello studio della devianza il libro Outsider, di Ohoward S. Becker è un classico. Anche quello di Goffman è importante, sull'identità negata. Il concetto di devianza presuppone prima una definizione. Secondo una definizione statistica deviante è che si discosta dalla norma. Anticamente era considerato deviante chi si discostava dai precetti religiosi o magici, con i divieti degli stregoni o dei sovrani delle società tribali e poi, con il passar del tempo, con la disapprovazione sociale e le leggi non scritte e, infine, con quelle scritte delle società più evolute. In ogni caso, il concetto di devianza presuppone quello di norma(lità) e viceversa.

Perché alcune persone hanno comportamenti devianti ed altre no? Questa domanda, al di là delle risposte mitologiche e religiose che facevano risalire le colpe della devianza alle divinità o alle forze demoniache, si è posta con particolare forza a partire dall'Ottocento, in quanto la borghesia, classe dominante, aveva paura particolare della devianza e del crimine e voleva combatterla con particolare vigore, cercandone quindi le cause, come quelle di una pericolosa malattia sociale.

Cominciò allora il confronto fra sostenitori delle ragioni sociali/familiari della devianza, che vede l’origine dalla povertà, dalla miseria, dal degrado crescente dovuti al capitalismo; e sostenitori "ingenui" dell'origine caratteriale, fisiologica della devianza e del crimine.

Famosi furono allora gli studi dei francesi in questa direzione e, famoso, il libro di Cesare Lombroso, “L'uomo delinquente”, in cui dalle caratteristiche fisiche del corpo si faceva dipendere il destino deviante e criminale della persona.

Un’altra definizione di devianza ricorre al concetto di “malattia”. Poiché l’organismo umano quando funziona efficientemente e non è soggetto a nessun disturbo è considerato “sano”, allora quando non funziona efficientemente è considerato malato. Anche se è più facile discutere sul concetto di malattia che di normalità, tuttavia, si ritiene deviante una condotta che riflette un disturbo o una “malattia" mentale o morale.

 Il comportamento di un omosessuale o di un tossicomane è considerato come il sintomo di una malattia mentale, così come la difficoltà con cui si cicatrizzano le ferite del diabetico è considerata come un sintomo della sua malattia.

 Un’interpretazione sociologica della devianza più relativistica, la identifica come la mancata osservanza delle norme. Una volta scritte le norme che il gruppo impone ai suoi membri, possiamo stabilire che chi le viola è deviante. Di qui la duplice deduzione: non c'è devianza senza norma e non c'è norma senza devianza [1].

  

La teoria dell’etichettamento

Negli Stati Uniti, tra la fine degli anni '50 e gli anni '60, in un quadro storico-sociale segnato da numerose proteste e rivendicazioni per i diritti civili, muove i primi passi la cosiddetta teoria dell'Etichettamento (labelling approach), che vede tra i suoi maggiori esponenti Lemert e Becker.

Questa corrente di pensiero si basa su un importante presupposto: la definizione di un comportamento criminale è del tutto relativa, in quanto dipende dalla definizione normativa che, in quella data società e in quel dato tempo, viene attribuita a quel determinato comportamento; esso sarà considerato come reato o no a seconda della definizione normativa che gli è stata data.

Secondo la teoria dell'etichettamento, il criminale altro non è che colui che viene definito, “etichettato” come tale dalla società e dagli organi ufficiali di controllo (polizia, giudici, istituzioni penitenziarie).

 L'interesse viene quindi spostato dal delinquente e dalle condizioni sociali (povertà, sottocultura, ecc.) che producono la delinquenza, alla reazione sociale ed alla definizione della devianza: cioè ai processi e meccanismi selettivi di criminalizzazione, visti nel loro ruolo di controllo sociale, ed agli effetti della stigmatizzazione ai fini dell'acquisizione della qualifica di criminale o deviante.

 A questi fini non è decisivo il comportamento deviante in sé, ma piuttosto l'interazione tra l'individuo che mette in atto questo dato comportamento e i membri della società che ne vengono a conoscenza, in particolare gli organi di controllo sociale.

Lo status sociale di delinquente, pertanto, presuppone necessariamente l’effetto stigmatizzante, che ha una funzione costitutiva della criminalità stessa. Spesso è proprio la stigmatizzazione del primo comportamento criminale che genera, attraverso il mutamento dello status sociale dell'individuo stigmatizzato, una tendenza a permanere nel ruolo sociale delinquenziale in cui la stigmatizzazione lo ha introdotto.

Nella teoria dell'etichettamento il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema sociale, ma la condotta deviante è invece intesa come necessaria e utile alla società che in essa trova il confine ben delineato della propria conformità. Il deviante, quindi, deve essere “creato” per differenziarsene ed avere un termine di paragone negativo[2].

Inoltre, il deviante svolge anche un ruolo di capro espiatorio: nel momento in cui si polarizza contro di lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli autori del male, si ha il vantaggio di non far percepire come devianti altre condotte, parimenti dannose per la società, ma che sono proprie delle classi dominanti[3].

Il criminale nella comune accezione, non è tanto quello che commette un crimine ma piuttosto colui che, fra i molti atti illegali, ne compie certuni[4].

 I concetti di stereotipo e di stigma rappresentano bene questi meccanismi nel senso che le stereotipo culturale del criminale corrisponde a quello della criminalità abituale e convenzionale, ma non comprende tutti gli atti contrari ai codici.

Si avrebbe così una discriminazione in relazione al tipo di delitto, all’ambiente in cui esso viene attuato e al ceto dell’autore.
I gruppi sociali, quindi, creano devianza facendo le norme la cui infrazione costituisce devianza, applicando queste norme ad alcune persone ed etichettandole come outsider. Il deviante è una persona alla quale l’etichettamento è stato applicato con successo: il comportamento deviante è comportamento che viene etichettato come tale.

 

Stigma e identità sociale

Rispetto ai teorici dell'etichettamento, Goffman esplora il problema della devianza in relazione ai processi di costruzione dell'identità sociale.
Nella sua opera “Stigma” egli definisce l'atto come deviante quando questo trasgredisce una norma; per Goffman la trasgressione ha per oggetto un tipo specifico di norme, che regolano l'identità.
Ogni individuo è dotato di un'identità sociale: un complesso di segni esteriori definisce il suo status sociale e stabilisce le modalità di rapporto che gli altri possono intrattenere con lui.  L'identità personale che si va così a costruire è composta di due dimensioni: una virtuale, che è attribuita all'individuo sulla base della sua apparenza, e una reale.

Lo stigma è quell'attributo personale (una qualità fisica o culturale, come il colore della pelle, l'handicap, la religione, l'omosessualità, ecc.) la cui osservazione suscita negli altri un dubbio sull'identità sociale del soggetto, in quanto pone il problema dell'adeguatezza fra identità virtuale e reale.

 Da parte sua, l'individuo stigmatizzato cerca di gestire lo scarto fra le due dimensioni della sua identità, attraverso delle strategie di controllo dell'informazione sociale, che sono volte o a servirsi dello stigma stesso quando questo è riconoscibile o palese, oppure a evitare lo svelamento quando questo è nascosto.
Secondo Goffman, in teoria qualsiasi attributo può diventare uno stigma, poiché il passaggio da attributo a stereotipo avviene nel corso dell'interazione faccia a faccia; in particolare, l'autore sottolinea che non è il possesso dello stigma in sé ma il tipo di rapporto sociale in cui il soggetto è coinvolto a determinare il sorgere della devianza.
Il deviante è, perciò, il soggetto che è portatore di uno stigma, che ha scarse possibilità di controllare l'informazione per lui discreditante e che, infine, è posto in contesti poco favorevoli alla gestione di un'identità segnata dallo stigma[5].

 

Devianza e normalità

Il concetto di devianza presuppone l’idea del diverso. La diversità è un dato oggettivo, nel senso che oggettivamente, per esempio, un uomo di colore ed uno bianco sono diversi, l’uomo è diverso dalla donna, ecc. L’idea del diverso rimanda al concetto di ignoranza. Anche l’ignoranza è un dato oggettivo, nel senso che oggettivamente l’uomo bianco ignora chi è l’uomo di colore che ha davanti a sé. I due dati oggettivi, diversità ed ignoranza, generano la paura, che è un dato irrazionale, nel senso che posso avere paura senza decidere di volerla provare[6].

I mass media accentuano poi la diversità, finendo spesso col far passare la convinzione che se esiste il crimine o un certo male sociale, la colpa è sempre del diverso, e così che, per esempio, l’inizio della costruzione sociale della devianza del diverso coincide con la stigmatizzazione posta dalla società sullo straniero, che diviene sia la causa sia l’effetto della sua emarginazione[7].

Nella più recente sociologia, il concetto di devianza, è venuto ad assumere diversi significati. Originariamente, secondo l'indirizzo strutturale-funzionalistico, la devianza era intesa come un agire antinormativo, contrario cioè alle norme sociali, codificate o meno, che regolano il comportamento dei soggetti, conservano la credibilità per buona parte della gente e vengono ritenute più importanti.

 Nella teoria dell'etichettamento, invece, il concetto di devianza subisce un capovolgimento, poiché essa non consiste tanto nel comportamento antinormativo, ma è piuttosto la conseguenza della stigmatizzazione operata dalla reazione sociale[8].

Il processo di consolidamento della devianza si realizza poi attraverso una serie di eventi.

 La stigmatizzazione fa dunque in modo che il soggetto che si è comportato in un certo modo, finisca per riconoscere se stesso nell’etichetta che gli è stata posta e che non tende più a modificare la condotta. In particolare, Lemert distingue una devianza primaria, da una devianza secondaria: in entrambi i casi avviene la violazione di una norma, tuttavia, le conseguenze per il soggetto sono diverse:

l        la devianza primaria è quella condotta deviante che prescinde dalle reazioni sociali e psicologiche che modificano il ruolo e il sentimento dell'identità dl soggetto agente. E' “l'allontanamento più o meno temporaneo, più o meno importante agli occhi di chi lo attua, da valori o norme sociali e giuridiche, attraverso un comportamento che ha implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell'individuo; essa non dà luogo a una riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé e dei ruoli sociali”;

l        la devianza secondaria, invece, si realizza come effetto della reazione sociale e comporta peculiari effetti psicologici: l'attore si percepisce come deviante, sviluppa tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il ruolo comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo di deviante.

       Essa, dunque, “consiste nel comportamento deviante o nei ruoli sociali basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione primaria. In realtà le cause originarie della deviazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione, degradazione e isolamento messe in atto dalla società (Lemert, 1981)[9].

Le deviazioni restano primarie o situazionali finché non sono razionalizzate come funzione di un ruolo riconosciuto socialmente. Quando invece una persona comincia a usare il comportamento deviante come modo di adattamento ai suoi problemi, la devianza diventa secondaria.


 

Contrapposizione tra norma e devianza

E’ evidente che ci siano dei territori di confine ambigui, in cui norma e devianza si confondono e si sovrappongono.
Generalmente, per "devianza" si intende l’allontanamento da una norma, ove il concetto di norma è definito dall’analisi del comportamento umano; la norma è determinata dall’uomo e denota un margine o una classe di comportamenti entro i quali rientra la normalità.
La devianza, come la normalità, è soggetta a slittamenti semantici, a mutamenti dovuti ai mutamenti dei costumi delle società, dei contesti politici e territoriali.

La devianza può coincidere con la patologia (fisica o mentale: il malato o il folle) e con la criminalità (il ladro, l’assassino), nei casi in cui l’allontanamento dalla normalità implica l’allontanamento dalla salute o dal rispetto della legalità.

E’ indubitabile che il concetto di devianza (e il suo simmetrico, la conformità alla norma) si offra ad inferenze paradossali, determinate dal particolare punto di osservazione. Per rendere esplicito il carattere convenzionale della definizione di devianza basti ricordare che in un contesto ove ottanta persone su cento fossero malate di tisi, il deviante sarebbe colui che non è malato di tisi (ossia il sano).

A questo punto è interessante notare che in un esperimento scientifico si parla di errore, piuttosto che di devianza delle leggi di natura.
Nel caso di leggi di natura vi può essere errore (falsità contro la verità della legge), nel caso delle leggi sociali vi può essere soltanto allontanamento (devianza, appunto) dai comportamenti più frequenti che hanno dato corpo a quelle leggi.

La devianza, dunque, non coincide con “l’errore”.

C’è un’infinità di sfumature tra l’errore come conseguenza dei limiti della conoscenza umana e l’inganno come conseguenza della capacità umana di ricostruire il mondo da un punto di vista soggettivo, parziale, fazioso, unilaterale.

 L’errore scientifico si presenta sotto innumerevoli vesti, e rappresenta l’ombra che accompagna lo sviluppo delle conoscenze. Invece di cercare la verità sarebbe preferibile cercare l’errore: scovando l’errore, escludendo ciò che vero non è, ci si avvicinerà alla verità, in quanto si circoscriverà sempre di più l’ambito di ciò che potrebbe essere vero.  [10].

La devianza, inoltre, implica un dominio attinente alla sfera di volontà (intenzionalità) da parte del soggetto deviante: anche chi è deviante per “colpa”, ad esempio colui che guida in stato di ebbrezza, non è esente da considerazioni riguardanti la sua violazione.

 Per la dottrina penale poteva usare la sua volontà, prima dello stato di ubriachezza, risolvendosi nella scelta di non dover bere (o di bere, evitando di trovarsi a guidare).

La devianza, secondo le leggi di un ordinamento giuridico, implica sempre un contrasto concreto, non astratto, tra due soggetti (il deviante e il controllore delle regole sociali): tale aspetto è assente nell’errore di natura.
 

Disagio e Devianza

Per meglio definire il termine “devianza” è necessario partire dal concetto di “conformità”, che possiamo definire come la condotta di vita informata a parametri comportamentali accettati e permessi dal contesto sociale in cui sono inseriti, un comportamento quindi, coerente verso un insieme di norme (codificate e non).

Dal punto di vista struttural-funzionalista, secondo il sociologo E.Durkheim (1858-1917) la normalità è la media dei comportamenti, vale a dire, ciò che è normale è tale per un modello sociale determinato, in uno spazio temporale e in un luogo individuati.

Di conseguenza la conformità non è un comportamento statico, bensì mutevole e relativo in base ai valori dominanti della media popolazione di una specifica società in un particolare momento storico.[11]

Un comportamento conforme è il risultato di una buona socializzazione, ossia di tutta una serie di meccanismi volti all’apprendimento e all’accettazione delle norme che avviene fin dall’infanzia attraverso l’educazione dei genitori, l’insegnamento scolastico.

Considerando sempre il piano dello struttural-funzionalismo, nel momento in cui vi è una violazione motivata e non accidentale di una norma sociale, si manifesta il comportamento deviante.

Per essere tale, però, la regola deve essere conosciuta dal trasgressore ed egli, pur essendo consapevole dell’imperatività della stessa, non ne accetta l’autorità.

E’ quindi fondamentale che le norme per le quali si sia manifestata l’inosservanza, siano ancora credibili per il gruppo sociale in quel dato momento e siano considerate importanti ed essenziali.

Il concetto di devianza è quindi inscindibile dal contesto sociale di un determinato periodo storico.

E’ da sottolineare che è deviante solo quella condotta che, avendo violato una norma comune, produce una reazione sociale di disapprovazione e di censura e per la quale vi è una richiesta di sanzione, come risposta alla mancata interiorizzazione nel deviante del valore della regola infranta.

Infatti vi sono norme all’interno di una società che, pur essendo tuttora valide, non comportano alcuna reazione emotiva per la loro violazione e che, conseguentemente, hanno perso di significato, divenendo indifferenti alla sensibilità sociale.

La gravità della sanzione (ad esempio il rimprovero o l’emarginazione o l’applicazione di misure rieducative) e l’intensità della riprovazione sono indici fondamentali per valutare il comportamento deviante[12].

Alcuni esempi di comportamenti devianti tra i giovani possono essere considerati l’abbandono scolastico, la violenza e la prevaricazione diffusa, l’uso delle droghe, la fuga da casa[13]

A tale proposito può essere interessante citare la teoria di Merton (1959), la quale, rielaborando il concetto di anomia di Durkheim (il quale definì lo stato di anomia come “frattura delle regole sociali”, quella condizione cioè, all’interno di una società, in cui le norme vengono a decadere o ad essere scarsamente considerate ), sostiene che quando i valori culturali dominanti entrano in contrasto con i mezzi istituzionalizzati per il raggiungimento degli scopi del successo in una determinata società, a causa dell’impossibilità per alcuni membri di raggiungere tali scopi con i mezzi legittimi , possono prodursi comportamenti devianti. Merton quindi suddivide i devianti in diverse tipologie:

l        gli innovatori: coloro che pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti rispetto ai mezzi che usano per raggiungerli;

l        i ritualisti: coloro che rimangono fedeli ai mezzi consueti, pur non condividendo gli scopi cui questi dovrebbero servire;

l        i rinunciatari: coloro che rifiutano sia i valori e gli scopi comuni, sia le norme che riguardano i mezzi per raggiungere questi ultimi;

l        i ribelli: coloro che mettendo in discussione obiettivi e mezzi comuni, non si ritirano tuttavia dalla scena sociale, ma lottano per affermare obiettivi e mezzi diversi.[14]

Se consideriamo il percorso dalla conformità alla criminalità un cammino evolutivo (o meglio, involutivo), possiamo collocare tra il comportamento conforme e la condotta deviante, un processo intermedio: lo stato di disagio, che può essere definito come un “sentire” tipico della fase adolescenziale.

E’ proprio in questa fase della vita, infatti, in cui l’adolescente è impegnato nei processi di identificazione e diversificazione, nella ricostruzione della sua immagine infantile, sia personale che sociale, che prevalgono le incertezze, le crisi, i vissuti di solitudine.

            Se tali processi non si sviluppano in modo adeguato, a causa di una cattiva comunicazione con l’adulto, di patologie familiari, di difficoltà di inserimento nel mondo scolastico, o di una particolare situazione emotiva, nel giovane può sorgere una condizione di disagio la quale, espressione di un malessere diffuso, può manifestarsi attraverso fenomeni di isolamento, di reattività, di ribellione, di difficoltà nell’apprendimento[15].

            Possiamo quindi definire il disagio come “l’anticamera della devianza”.

            Il sentimento di disagio, di non adeguatezza, può quindi condurre a comportamenti di ribellione verso la società con la conseguente trasgressione delle regole del sentire comune, che la reazione sociale può classificare come condotte devianti.

            Allora, qual è, la differenza tra devianza e criminalità?

            In primo luogo la criminalità è da identificare in ogni comportamento che viola le norme previste dal codice penale e dalle altre leggi che prevedono una sanzione di carattere penale (quindi le diverse pene stabilite per i delitti e le contravvenzioni dall’art. 17 del c.p.). Ma è fondamentale precisare che non sempre l’infrazione di una norma penale produce una reazione di disapprovazione da parte della società, anche se l’entità della pena risulta essere grave.

            E’ vero che se il concetto di devianza, essendo frutto di un giudizio di valore inscindibile dal contesto storico e sociale, ha finito spesso per coincidere anche con quello della criminalità per quelle condotte che producono una reazione emotiva della società, quali tossicodipendenza o i delitti dovuti ad uno status sociale svantaggiato, lo stesso non può valere per quei reati ben più gravi, per la delinquenza dannosa nei confronti del prossimo e quella organizzata che attenta ai principi basilari della società[16].

            La criminalità si denota, quindi, anche per la sua pericolosità sociale e per la reazione di insicurezza che infonde nella popolazione.

            E’ tuttavia importante sottolineare che non si può far rientrare il concetto di criminalità in quello più generico e mutevole di devianza, anche in considerazione della diversità nella gravità della reazione dell’opinione pubblica e di quella ufficiale e nella sua pericolosità sociale.
 

Conclusione

 

Sono state affrontate fin qui sia le definizioni sociologiche sul tema della devianza e sia la teoria dell’etichettamento, che ha segnato un vero paradigma nella sociologia della devianza, secondo lo studio particolare di H. S. Becker.

La devianza, per Becker, è sempre il risultato dell’iniziativa di qualcuno. Prima che qualsiasi atto possa essere visto come deviante, e prima che qualsiasi categoria di persone possa essere etichettata e trattata come deviante per aver commesso l’atto, qualcuno deve aver instaurato la norma che definisce questo atto come deviante. Le regole non nascono spontaneamente. Anche se un’attività può essere oggettivamente dannosa per il gruppo cui avviene, il danno deve venire scoperto e messo in evidenza. Le persone devono essere indotte a pensare che sarebbe necessario fare qualcosa. Qualcuno può richiamare l’attenzione del pubblico su questi problemi, fornire la spinta necessaria per raggiungere l’obiettivo e, una volta svegliate queste energie, convogliarle nella direzione adatta perché venga creata una norma. In senso lato la devianza è il prodotto di un’iniziativa: senza questa iniziativa destinata a creare le norme, la devianza, che consiste nell’infrangerle, non potrebbe esistere.

La devianza è il prodotto di un’iniziativa anche in un senso più stretto e particolare. Una volta entrata in vigore, una norma deve essere applicata a delle persone particolari prima che l’astratta categoria degli outsiders creata dalla norma possa popolarsi. I trasgressori devono essere scoperti, identificati, arrestati e condannati (o marchiati come “differenti” e stigmatizzati per la loro non conformità). Naturalmente questa incombenza spetta ai professionisti del fare rispettare le norme che, applicando leggi già esistenti, creano i devianti particolari che la società vede come outsiders[17].

E’ interessante il fatto che la maggior parte della ricerca e della teorizzazione scientifica sulla devianza si occupi delle persone che infrangono le norme, piuttosto che di quelle che le istituiscono e le fanno applicare. Se vogliamo raggiungere una tale comprensione del comportamento deviante, dobbiamo mettere sulla bilancia queste due possibili direzioni dell’indagine sociologica. Dobbiamo vedere la devianza e gli outsiders che personificano questo concetto astratto, come una conseguenza di un processo di interazione tra persone: alcune, nel servizio dei propri interessi, elaborano e fanno applicare delle norme che colpiscono altre persone che, nel servizio dei propri interessi, hanno commesso degli atti etichettati come devianti.

Becker fa una critica ai sociologi che si occupano del problema della devianza: pochissimi sociologi, scrive, descrivono in dettaglio cosa faccia un giovane delinquente nel corso della sua attività quotidiana e cosa pensi di se stesso, delle sue attività e della società. Quando formuliamo delle teorie sulla delinquenza giovanile, ci troviamo quindi nella situazione di dover dedurre il modo di vivere di un ragazzo delinquente da studi frammentari e da resoconti giornalistici[18] anziché riuscire a basare le nostre teorie su un’adeguata conoscenza del fenomeno che cerchiamo di spiegare. E’ come se provassimo, come una volta dovevano fare gli antropologi, a costruire una descrizione dei riti d’iniziazione di una lontana tribù africana a partire dai resoconti dispersi e incompleti di alcuni missionari. Noi sociologi, dice Becker, a differenza degli antropologi, non abbiamo motivo di fidarci delle descrizioni-frammentarie di un dilettante: i soggetti del loro studio erano distanti migliaia di chilometri, in giungle inaccessibili; i nostri stanno vicino a noi.


Bibliografia

Andreassi Marinelli F., Devianze e tecnologie educative e di contrasto, Benedetti, L'Aquila 2007

Cavallo M., Ragazzi senza, Paravia Bruno Mondatori, Milano 2002

Becker H. S., Outsiders, Ega, Torino 2006

Durkheim E., Le regole del  metodo sociologico, Edizione di Comunità, Milano 1979

Goffman E., Stigma, Ombre Corte, Verona 2003

Mantovani F., Il problema della Criminalità, Cedam, Padova 1984

Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995

Saffirio L., Saggio introduttivo a R.A. Cloward, L.E. Ohlin, Teorie delle bande delinquenti in America, Laterza, Bari 1968

Sciolla L., Sociologia dei processi culturali, Il Mulino, Bologna 2002

Sidoti F., Criminologia e investigazione, Giuffrè, Milano 2006

 


 

[1] H. S. Becker, Outsiders, Ega, Torino 2006 p. 24-47

[2] F. Andreassi Marinelli, Devianze e tecnologie educative e di contrasto, Benedetti, L'Aquila 2007 p. 19.

[3] .Mantovani F., “Il problema della Criminalità” Cedam, Padova 1984 p.p.240-249 .

[4]  F. Andreassi Marinelli, Devianze e tecnologie educative e di contrasto, Benedetti, L'Aquila 2007, p. 18.

[5]  Goffman E., Stigma, Ombre Corte, Verona 2003, pp. 43-50.

[6]  Andrassi Marinelli F., Devianze e tecnologie educative e di contrasto, op. cit.,  p.13

[7] Ibidem

[8]   F. Mantovani “Il problema della Criminalità” Cedam, Padova 1984, p.69.

[9]  F. Andreassi Marinelli, Devianze e tecnologie educative e di contrasto, op. cit.,  p. 16.

[10]  F. Sidoti, Criminologia e investigazione, Giuffrè, Milano 2006, pp. 234-236.

[11] E. Durkheim, Le regole del  metodo sociologico, Edizione di Comunità, Milano 1979, p.71

[12] G. Ponti, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995, p.202-204- 222-223.

[13] M. Cavallo, Ragazzi senza, Paravia Bruno Mondatori, Milano 2002, p.12.

[14] L. Saffirio, Saggio introduttivo a R.A. Cloward, L.E. Ohlin, Teorie delle bande delinquenti in America, Laterza, Bari 1968 pp. 8-9.

[15]  M. Cavallo, Ragazzi senza, Paravia Bruno Mondatori, Milano 2002, p.11.

[16] G. Ponti, op. cit., pag. 224-225

[17] Outsiders è il deviante rispetto alle norme di un gruppo. Tale persona però, rispetto alla norma, può avere un suo punto di vista diverso da quello del gruppo che ha emanato la norma stessa e ritenere che deviante è la norma e chi l’ha emanata e non lui. In tal caso, è il trasgressore della norma che considera i suoi giudici come outsiders (H.S. Becker, 1987).

[18] Becker cita a riguardo che due autorevoli testi  di sociologia della devianza sono basati su indagini giornalistiche, A.A. Cohen, Delinquent Boys: The Culture of the Gang (trad. it.: Ragazzi delinquenti, Feltrinelli, Milano 1963); A. Cloward, L.E. Ohlin, Delinquency and Opportunity, A Theory od Delinquent Gangs (trad. it.: Teoria delle bande delinquenti in America, Laterza, Bari 1968).

Articolo pubblicato il 23/02/2010 aggiornato al 17/10/2017