Prof. Dott. Saverio Fortunato
Specialista in Criminologia Clinica, con specializzazione conseguita alla Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (Italia)
Docente al Corso di Laurea Scienze dell'Investigazione dell'Università di L'Aquila
Abilitato per l'insegnamento di Filosofia, Psicologia e Scienze dell'Educazione
 

Perché c'è qualcosa anziché il nulla?

 

La filosofia a lungo si è interrogata sul problema di ciò che è al di là delle apparenze naturali (physiká).  La domanda filosofica è stata: perché c’è qualcosa invece che nulla?

La risposta a tale domanda ha rimandato per secoli ad un principio assoluto, solitamente di natura divina. Tale domanda la troviamo in Aristotele, insieme a quest’altra: che cos’è l’essere? O in modo più libero, che cos’è la verità? Aristotele parla di metafisica, ossia di scienze dell’essere in quanto essere (vale a dire, dell’essere in generale) e come teologia (l’essere per eccellenza, ovvero Dio).

Il riferimento ad un principio primo, assoluto, capace di spiegare tutte le cose, ha determinato l’incontro  della metafisica con la religione. 

Anche oggi il pensiero cristiano si interroga: sia sul rapporto tra teologia e metafisica; sia sulla possibilità di fare affermazioni sull’esistenza di Dio.  Da quanto detto si è dato origine a due concezioni filosofiche: la concezione delle metafisiche dell’immanenza (la totalità della realtà); e la concezione delle metafisiche della trascendenza (che conducono ad un principio al di là del mondo  del divenire,  del mondo dell’esperienza).

Entrambe le concezioni però, avevano alla base il tentativo di ricondurre la molteplicità delle cose ad unità. Questo principio unificante, di vota in volta, nella storia della metafisica ha assunto varie definizioni:  Natura, Essere, Idea, Sostanza, Uno, Dio, ecc.  In ogni caso si è sempre ritenuto che il pensiero fosse capace di cogliere la realtà, pertanto la metafisica è stata considerata l’espressione più elevata del sapere filosofico, perché poneva al centro la realtà.

Sulla concezione dell’essere,  Tommaso d’Aquino (1221/1227-1274) rifiuta la concezione aristotelica della parità ontologica, tra mondo delle sostanze e Dio, ritenendola incompatibile con la fede cristiana[1].

Tommaso sostiene che solo ciò che esiste è bene, in quanto creato da Dio. Il male, quindi, non è un essere, ma una mancanza di essere e di perfezione, un deficit. Per Tommaso la natura una volta creata da Dio poi è autonoma e si autoregola. L’uomo è unione di forma e di materia, di anima e di corpo. Tommaso afferma l’unione del corpo e dell’anima e l’immortalità dell’anima.  La separazione dell’intelletto da ogni organo, necessaria perché possa svolgere il suo compito, è il fondamento dell’immortalità.  Tommaso nega l’impostazione aristotelica che vuole l’intelletto unico per tutti gli uomini, mentre ritiene che ogni uomo ha il suo intelletto.

René Descartes Cartesio (1596 - 1650),  rompe la tradizione della metafisica dando origine al dualismo  di res cogitans e res extensa. Sostanza estesa e sostanza pensante hanno caratteri eterogenei: possono interagire tra di loro? Se si, come avviene? Cartesio afferma che si deve trovare un criterio di verità su cui non si può dubitare, che garantisca l’universale applicabilità delle regole del metodo, sottraendole a possibili obiezioni scettiche. Occorre risolvere, però, alcune grandi questioni di metafisica generale (l’esistenza di dio, l’immortalità dell’anima), al fine di mostrare la perfetta compatibilità della scienza moderna con la fede cristiana. In tale impresa fu incoraggiato dai settori della chiesa cattolica più sensibile alle istanze della nuova scienza.

La filosofia di Thomas Hobbes (1588-1679) riteneva che possiamo conoscere solo i corpi e il loro movimento, non l’essenza delle cose. Essa si poneva sia come materialismo metodologico sia come un’istanza antimetafisica.  Per Hobbes, l’uomo può conoscere solo ciò che è materiale. 

Tale convinzione di Hobbes la ritroviamo anche in altri filosofi. Francesco Bacone (1561-1626) e Galileo Galilei (1564-1642), per esempio, criticavano l’aristotelismo, negando di poter conoscere l’essenza delle cose.

Spinoza (1632-1677) affermava che Dio è l’unica sostanza, è immanente nella natura, che è, per così dire, un suo prolungamento. Dire concezione della realtà e concezione di Dio è la stessa cosa, infatti non vi è distanza ontologica tra Dio e la natura. Si può anzi dire che la concezione di Dio coincida con l’ordine geometrico della natura. Per Spinoza Dio è conoscibile attraverso la ragione. Nella natura non vi è finalismo, come non vi è libertà, perché tutto avviene secondo necessità e per opera delle leggi immutabili di Dio.

Fra il Seicento e il Settecento le cose cambiano. I filosofi ragionano attorno alla domanda: che cosa può conoscere l’uomo?  John Locke (1632-1704) nega l’esistenza di idee innate (ossia, che l’idea di Dio come essere perfetto e creatore sarebbe stata un’idea innata) e mette in discussione un fondamento della metafisica: il concetto di sostanza. Locke sostiene che la sostanza altro non è che un’idea complessa, prodotta dalla ragione unendo diverse idee semplici, e che non corrisponde a qualcosa che esista realmente fuori dal nostro pensiero.

David Hume (1711-1776) sviluppa la critica di Locke, critica aspramente i concetti della metafisica e della scienza moderna della natura. Poiché la conoscenza si basa solo su sensazioni, all’uomo è preclusa ogni conoscenza della realtà oggettiva.

Immanuel Kant (1724-1804) irrompe nel pensiero filosofico moderno. Da una parte, la sua è metafisica del soggetto che conosce, ossia la filosofia può conoscere gli elementi e le funzioni a priori della conoscenza umana. Dall’altra, proprio su tale aspetto Kant fonda il problema del nesso tra teoria della conoscenza e possibilità della metafisica.

Il criticismo kantiano si chiede: è nelle possibilità della ragione umana la conoscenza della metafisica?  Lui risponde di no. L’uomo può conoscere le cose così come appaiono, i fenomeni, ma non può conoscere la loro realtà in sé, i noumeni.

La metafisica non è possibile come scienza, perché l’orizzonte dell’esperienza circoscrive e limita le possibilità della conoscenza. La tendenza della ragione è quella di guardare al di là dell’orizzonte: ma quando essa compie tale atto –si muove cioè sul terreno della metafisica- cade inevitabilmente in errori, si muove su un terreno che è quello dell’illusione (sia pure “trascendentale”) e non della “conoscenza”. La “dialettica della ragione” viene così interpretata come “dialettica dell’illusione”.

Kant critica la metafisica. Le tre idee della ragion pura –quelle dell’anima, del mondo e di Dio- che sono a fondamento della Psicologia razionale, della Cosmologia razionale e della Teologia razionale, non sono dimostrabili attraverso l’esperienza umana. Infatti, nel caso dell’anima, si può dire che nel soggetto vi è un’attività conoscitiva, ma non si sa nulla sulle caratteristiche in sé del soggetto che conosce. Contro Cartesio, Kant sostiene che, se era giustificata l’affermazione dell’esistenza del cogito, ingiustificato era invece il passaggio ad una “res” cogitans. Inoltre, nel cercare di comprendere il mondo come totalità oggettiva, il soggetto nulla può sostenere circa il suo carattere finito o infinito nello spazio e nel tempo, nulla sulla sua natura, nulla sulla causalità libera o sulla causalità necessaria come forma di relazione che gli è propria e nulla, infine, sull’esistenza di un Dio creatore del mondo. Nessuna delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio viene considerata valida. Non le prove a posteriori, perché nessuna può giungere a dimostrare l’esistenza di una causa prima, ma neppure quella a priori, legata all’argomento ontologico: l’esistenza non è infatti una perfezione, ma una categoria che può essere usata solo in rapporto a un’esperienza possibile. Dio, però, non appartiene al campo di un’esperienza possibile all’uomo. La struttura della metafisica viene così completamente distrutta.

Solo nell’ambito della morale, dice Kant, vengono recuperate le idee fondamentali della metafisica, cioè l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e la libertà dell’uomo, ma vengono intese come postulati della ragion pratica, cioè come premesse necessarie alla morale e non come tesi dimostrabili frutto di una conoscenza.

Arthur Schopenhauer (1788-1860) sostiene che il mondo è solo rappresentazione, finzione, illusione; niente a che vedere con la realtà, la razionalità e neanche il movimento dialettico. La realtà profonda delle cose è costituita da una forza cieca, oscura, irriducibile ad altro: la volontà. Il mondo –come tale- è privo di senso, cioè il senso del mondo visibile, del mondo dell’esperienza, è fuori di esso, fuori dall’esperienza.  Col nostro corpo possiamo cogliere, dentro di noi, una vita oscura e profonda, un tumulto di desideri, una brama di vivere, uno sforzo e una tensione che sono irriducibili al pensiero e che Schopenhauer denomina Volontà, un cieco impeto che attraversa il nostro copro e che viene identificato come una forza diffusa in tutti gli altri corpi, nella natura intera e che sottende ogni fenomeno ed evento, materiale o umano. Essa è l’autentica cosa in sé, in noumeno kantiano.

L’unica via di superamento di tale situazione è l’annientamento della volontà, l’ascesi, ossia la negazione dell’essere, il rifiuto di attaccarsi a qualsiasi realtà, operazione con cui il mondo non è più il mondo ma si annulla, puramente e semplicemente per l’individuo.

Soren Aabye Kierkegaard (1813-1855) ha una filosofia dell’esistenza, del Singolo, differenziandosi da Schopenhauer, la sua filosofia si iscrive in una prospettiva religiosa e per la quale l’unica via d’uscita dall’angoscia di vivere e dalla disperazione è la scelta di Dio.

La realtà per il Singolo è un insieme di difficoltà, di contraddizioni radicali e quando il Singolo si trova a scegliere lo fa liberamente, in quanto scegliendo egli diviene ciò che sceglie e decide su di sé.

Il singolo è la categoria per la comprensione della realtà, insieme a quella di possibilità. E’ infatti la possibilità, non la necessità, a costituire il modo di essere fondamentale del singolo, il suo concreto esistere. La necessità implica una dimensione del reale che è fuori del tempo, perché è già ciò che deve essere e non conosce cambiamenti. La possibilità invece è temporanea, un divenire continuo, ma senza mete prefissate. Implica quindi una perenne instabilità del vivere. Pone la persona di fronte ad alternative drastiche (possibilità “di si“ e possibilità “di no”) che lo paralizzano e lo gettano nell’angoscia. E’ l’irruzione della trascendenza ad aprire la possibilità, è per il singolo, di non cadere nella disperazione di non poter essere se stesso e di non trovare risposta alla propria angoscia.

Nella fine dell’Ottocento la critica alla metafisica si fa risolutiva e drastica. Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) sottopone la metafisica e con essa l’intera razionalità occidentale, ritenuta negatrice della vita, del lato “dionisiaco” dell’uomo. Tale critica è simboleggiata dall’annuncio che Dio è morto, cioè è morta la metafisica, e della stessa possibilità di un mondo “altro” e più “vero” di quello dell’”apparenza”.

L’illusione metafisica ha origine in Platone, che ha posto le Idee, il mondo sovrasensibile, come il “mondo vero”, degradando il mondo del divenire e della sensibilità a mondo dell’apparenza, svalutando come “in autentico” il mondo in cui viviamo. La metafisica ha contribuito ad alimentare negli uomini un atteggiamento di rinuncia alla vita. Ma per il pensiero occidentale la dimensione della metafisica è stata la dimensione di Dio. Così per Nietzsche crisi della metafisica e “morte di Dio” appaiono complementari. “Rovesciare idoli è il mio mestiere” affermava Nietzsche, poiché bisogna distruggere e criticare per creare nuovi valori, per affermare una nuova potenza dello spirito e per aprire una nuova epoca, quella dell’Oltreuomo o “Superuomo”. Non sono io ad “uccidere” Dio, ma sono stati gli stessi uomini dell’Occidente cristiano. Si è spenta la metafisica, una visione delle cose nella quale a fondamento del mondo è stato sempre cercato un principio assoluto. Dobbiamo invece imparare a vivere sospesi nello spazio vuoto che la morte di Dio spalanca all’uomo, senza punti di riferimento. Vivere con noi stessi, con le nostre passioni e dolori e nient’altro[2].

Nel Novecento la metafisica non sopravvive, se non ai margini della filosofia. Rudolf Carnap (1891-1970) afferma che la metafisica non è scienza, ma “poesia”. Ludwing Wittgenstein (1889-1951) sostiene che gran parte dei problemi della filosofia tradizionale vanno scartati perché non rientrano nel campo dell’esperienza né in quello del linguaggio formale e quindi non possono essere raffigurati come si deve (“il pensiero è una proposizione dotata di senso”). Sono quindi privi di senso, tali da portare a pseudo-proposizioni privi della connessione con l’esperienza o privi del rigore logico-formale. Ad esempio, sono pseudo-proposizioni quelle che parlano del mondo come “totalità”, poiché questo non è un “fatto” accertabile. Da una parte Wittgenstein afferma che la filosofia non deve essere un sistema teorico, ma un’attività; ossia, deve chiarire il significato delle proposizioni, tracciando i limiti del pensiero, indicando il confine tra ciò che è pensabile e dicibile e ciò che non lo è, sulla base dei requisiti logici che deve avere ogni significante del linguaggio.  Dall’altra parte, egli, con la teoria dei giochi linguistici, non riferendosi più a realtà “ultime”, ad “essenze”, i linguaggi della filosofia e delle scienze perdono ogni connotazione ontologica. Dipendono unicamente dalle loro regole d’uso. La filosofia diventa una specie di terapia: giacché sostituendo le parole dal loro uso metafisico all’uso effettivo che di esse si fa nella vita quotidiana, essa permette di scoprire i non-sensi in cui spesso cadiamo quando adoperiamo, appunto, le parole al di fuori del loro contesto d’uso[3].

La visione di Wittgenstein è fondamentale ed è attuale nella filosofia odierna. Ancora oggi compito dei filosofi è di interrogarsi sul conferimento di senso a quello che le persone dicono e fanno rispetto la situazione in cui vivono. In questa attività filosofica, anche la “metafisica” ci può stare, purché non abbia più alcuna pretesa di assolutezza e di padronanza della Verità.

 

Bibliografia e fonti:

M. De Bartolomeo/V. Magni, Filosofia, Atlas

Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet

[1] M. De Bartolomeo/V. Magni, Filosofia, Atlas

[2] ibidem

[3] ibidem

 

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