Per i Sofisti il
niente coincide col nulla e il nulla con l’essere. “Nulla è”, diceva
Gorgia; mentre, al contrario, Parmenide (IV sec. a.C.) affermava che
“L’essere è e non può non-essere” e, dunque, non è ammesso dire di
una stessa cosa tutto e il suo contrario. Per Parmenide
l’essere è, e ciò indica un legame tra essere e pensiero, Gorgia
dice esattamente il contrario. Nel suo scritto Sul non essere
sostiene che niente esiste, cioè l’essere non è, che seppure
esistesse non sarebbe conoscibile, seppure fosse conoscibile non
sarebbe comunicabile. Gorgia confuta la tesi di Parmenide sul piano
ontologico, gnoseologico e della comunicazione, fino ad arrivare a
quello che è stato chiamato ‘nichilismo’ (dalla parola nihil,
‘niente’ in latino): cioè annientamento totale di tutti i valori e
di tutte le prospettive.
Sugli interrogativi
del nulla-è e su ciò che è l’essere, domande ben lungi dall’essere
banali, il filosofi Zenone, difensore di Parmenide contro i Sofisti,
giunse al cosiddetto “Procedimento per assurdo”, che oggi
ritroviamo, in tutti quei castelli accusatori o difensivi, che sono
privi d’empatia, perché unilaterali.
Grazie agli studi di
Dilthey
il comprendere di per sé, è ritenuto un problema e la comprensione,
è un compito di natura ermeneutica.
Heidegger nel suo
saggio “L’essenza del fondamento” (1928) esamina il principio
leibniziano
di ragion sufficiente, presente nella metafisica sotto forma di
principio di causalità (che ritroviamo, oggi, anche nell’art. 40 del
c.p.). Secondo tale principio, tutto ciò che esiste ha una causa o
un fondamento che ne spiega l’esistenza. Tant’è che il vero sapere
si configura come sapere di cause. Da ciò la polemica nella
filosofia delle scienze contro le dottrine che hanno ridotto la
“verità”, a una “proprietà” dell’uomo, ossia a una facoltà del
soggetto, rappresentata di volta in volta dalla diánoia
(Aristotele), dall’intellectus (San Tommaso), dal cogito
(Cartesio), dalla volontà di potenza (Nietzsche). Di questa
progressiva antropologizzazione e soggettivizzazione della verità è
responsabile Platone (si veda l’opera Dall’essenza della verità,
oppure La dottrina platonica della verità).
Ora, mentre per i
primi filosofi la verità è intesa come rivelazione dell’essere, come
determinazione dell’essere stesso, Platone la concepisce come una
proprietà del conoscere umano. In questo modo egli capovolge il
nesso tra verità ed essere, fondando l’essere sulla verità, anziché
la verità sull’essere. Per Platone il vero è ciò che risulta
visibile agli occhi dell’intelletto (all’idea) ma in questo modo ha
ridotto la verità alla correttezza (orthótes) del pensare e
del volere, ponendo le basi per la sua risoluzione nella
“soggettività del soggetto”. Da questa dottrina all’affermazione di
Nietzsche secondo cui la verità è “una forma d’errore” (umana,
troppo umana) c’è un passaggio graduale ma necessario, coincidente
con la storia stessa del nichilismo occidentale.
Secondo Heidegger la
verità implica la non-verità; proprio come la luce implica
l’oscurità. Una dimostrazione di tale nesso, è costituito dalla
parola a-létheia, che significa non-nascondimento, a conferma
del fatto che l’illuminarsi della verità implica un cooriginario
nascondersi di essa.
Socrate affermava che
il voler persuadere qualcuno, senza la conoscenza del vero, conduce
a delle conseguenze nefaste; pertanto, un’arte del discorso, che non
è compenetrata dalla verità, non può esistere.
Secondo invece Husserl
(1859) considerato il fondatore della fenomenologia, occorre
mettersi in relazione con il mondo ma rimanendo fedeli ai fenomeni,
ossia, a ciò che appare. Nelle riflessioni filosofiche di Franz
Brentano (1781-1848) assume grande importanza il mondo fenomenico.
Vale a dire, il mondo con il quale la realtà appare alla coscienza.
La coscienza, dunque, deve sempre essere considerata il fondamento
ultimo dei fenomeni.
Lasciando per un
attimo la filosofia, del nulla si è occupato anche Cesare Pavese,
nella poesia “Lo steddazzu”.
Il nulla, secondo
Cesare Pavese
Lo steddazzu:
L'uomo solo si
leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.
L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende
Pavese parla dell’uomo
solo, che nulla si aspetta dalla vita.
Non c'è cosa più amara,
afferma. che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. L'uomo solo si leva che il mare è ancor
buio e le stelle vacillano, è questo il momento in cui ritiene
che nulla può accadere… Quindi il nulla, per Pavese, è ciò che non
accade.
J. P. Sartre
parlava dell’essere e del nulla. Affermava: La coscienza
è il nulla, essa fonda se stessa in quanto nega un certo essere o
una certa maniera d’essere. In primo luogo essa nega l’essere in sé
e in secondo luogo nullifica il suo per sé. Questo è il senso della
realtà umana: la nullificazione e la mancanza d’essere. Ne è esempio
il desiderio che si esprime come mancanza dell’essere che si
desidera.
Se l’essere in sé è, per suo conto, completo e
pieno, per la coscienza è invece mancante di qualcosa. Un quarto di
luna (considerato come essere in sé) è completo, ma per la coscienza
è mancante di qualcosa. La coscienza si aspetta e pretende ciò che
non è. In ciò sta il suo potere nullificante. La realtà umana è
costituita da possibili che in quanto tali non sono. Sartre dice:
«Il possibile è ciò di cui manca il per sé per essere sé».
Ma il nulla è anche nell’essere. La semplice
interrogazione sull’essere «ci rivela che siamo circondati dal
nulla», poiché ogni risposta sarà una limitazione della totalità
dell’essere. E ancora: «La condizione necessaria perché sia
possibile dire è che il non-essere sia una presenza continua, in noi
e al di fuori di noi, è che il nulla penetri continuamente
l’essere».
Se il nulla fosse nulla svanirebbe in quanto tale, invece deve
fondarsi sull’essere: «Il nulla se non è sostenuto dall’essere
svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell’essere; se del nulla
può essere dato […] ciò avviene […] nel seno stesso dell’essere, nel
suo nocciolo, come un verme».
Ma come ne usciamo da
questo circolo virtuoso? Se non deve essere quello retorico, allora
qual è il linguaggio che ci porta alla verità in un’indagine
investigativa, peritale o processuale?
A noi serve anzitutto
una metodologia della ricerca.
Nel campo scientifico non è sufficiente conoscere le cause
per affermare di conoscere qualcosa che da quelle cause ha
avuto origine, giacché occorre la competenza del ragionamento,
posto che qualunque idea perde il senso o ne acquista un altro
rispetto quello originale, se non segue dei principi e non
descrive le strutture ed i caratteri fondamentali della
realtà.
In questo senso il ragionamento investigativo o
peritale, oltre che da esperto, deve essere metodo-logico.
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Il procedimento per assurdo segue questo schema di ragionamento:
-enunciazione
della tesi che si vuole dimostrare (Tizio è colpevole!);
-assunzione,
in via provvisoria, delle ipotesi contrarie alla tesi sostenuta
(Tizio, forse, è innocente!);
-la deduzione
da tali ipotesi di conseguenze contraddittorie che ne inficiano
la validità (per es., se ci sono le impronte è stato lui se non
ci sono le avrà cancellate; oppure, é chiaro che non può
confessare un delitto che lo incastrerebbe, ecc.);
-l’accettazione
della tesi di partenza che risulta dimostrata dall’assurdo di
tutte le ipotesi ad essa contrarie (Chi altri poteva essere il
colpevole se non lui? Oppure, poiché non è dimostrato che sia
stato un altro ne segue che è stato lui!).
Wilhelm Dilthey, nacque a Briebrich nel 1833, studiò a Berlino
in un clima molto fervido culturalmente. La sua prima opera
pubblicata fu sull’analisi metodologica delle scienze sociali.
Sua fu la definizione di scienze dello spirito, ossia una
disciplina scientifica che analizza i fenomeni della storia,
vale a dire, i fenomeni individuali. In questo modo si
differenzia dalle scienze naturali il cui compito è di definire
le leggi generali che regolano le realtà naturali.
Gottfried Wilhelm Leibniz, nacque a Lipsia nel 1646 e morì a
Hannover nel 1716; filosofo, figlio di un professore di
filosofia morale, che però scomparve presto. A dodici anni
Leibniz conosceva il latino e comprendeva il greco.
Cesare Pavese (piemontese, 908-950), poeta e uomo impegnato
intellettualmente. Nelle sue opere esprimeva il disincanto dopo
l'illusione, la solitudine, quasi l'inutilità dell'agire; morì
suicida. Scrisse questa lirica quando era stato confinato dal
regime fascista in Calabria, nel 1936.
steddazzu: in dialetto
calabrese (più correttamente steddazzu) indica la cosiddetta
"stella di Venere", che brilla in cielo poco prima dell'alba.
(Vacillano = tramontano. Sciacquio = rumore delle onde contro la
riva). La poesia fa parte dell’opera di Cesare Pavese, “Lavorare
stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1934 e poi nel 1943
con l’aggiunta di nuove composizioni, tra cui Lo steddazzu. La
poesia fu scritta in Calabria nel gennaio 1936 quando il poeta
era stato confinato per la sua opposizione al fascismo; essa
riflette la sua solitudine esistenziale.
J. P. Sartre:
Essere e nulla (1943), Mondadori, Milano 2000; si veda anche
pianetascuola.it, percorsi didattici.
Per Sartre la coscienza è, in primo luogo, coscienza di qualcosa
che non è coscienza.
La coscienza è
l’essere per sé. La
posizione di Sartre non è né idealista (perché afferma
l’esistenza di un qualcosa che non è coscienza) né realista
(perché ritiene che la coscienza non dipende totalmente
dall’essere).
in questo
senso, il Manuale di Metodologia Peritale che ho
pubblicato per l’editore Ursini, con la prefazione di Francesco
Sidoti e con gli interventi del giudice Cesare Marziale e del
Sost. Proc. della Repubblica di Pistoia Jacqueline Monica Magi,
è stato il primo passo significativo di ridurre a sistema (in
senso kantiano) l’indagine forense.
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